Rugby, l’addio di Ghiraldini all’azzurro: “Il momento giusto per lasciare”

Vent’anni passati a correre, a placcare, a guidare mischie sui campi di tutta Europa. E una esperienza accumulata a 36 anni che ha pochi eguali. L’intervista all’ex tallonatore dell’Italrugby, Leonardo Ghiraldini.

ROMA – “Era arrivato il momento giusto per lasciare”. Dopo 107 caps, 17 volte capitano, 4 coppe del mondo, a 36 anni Leonardo Ghiraldini ha deciso di lasciare la maglia azzurra. L’ormai ex tallonatore dell‘Italrugby si racconta e spiega le motivazioni che l’hanno spinto a dire addio. Oggi vive a Tolosa con moglie e figli: “Il mio percorso dopo l’infortunio del 2019 è stato travagliato- ha detto all’agenzia Dire- Ho avuto la possibilità di tornare ad alto livello, in Nazionale, a ottobre-novembre dell’anno scorso, negli ultimi test match. È stata una soddisfazione enorme, una opportunità cercata, voluta. Quella maglia me la sono sudata”. Dopo le sfide autunnali, dopo il tour, “ho riflettuto molto, e ormai sono senza club per scelta perché mi sono detto che non volevo continuare a giocare tanto per, non volevo pensare a giocare a rugby come se fossi un 20enne che va sei mesi da una parte, sei mesi dall’altra”. Da qui, la scelta di lasciare la maglia azzurra. L’annuncio è stato dato a poche settimane dal Sei Nazioni, ma la decisione è maturata nel tempo: “Sentivo che questo era il momento giusto per l’addio, anche se so che mi avrebbero dato fiducia per il Sei Nazioni. Ma ho preso la mia decisione, dal profondo, e anche nel rispetto che ho avuto sempre per la maglia azzurra”.

GHIRALDINI E I CT: “MALLETT IMPORTANTE, MA DA TUTTI AVUTO QUALCOSA

La carriera rugbistica in azzurro di Leonardo Ghiraldini sicuramente è stato un misto di tante esperienze diverse. Ogni ct lo ha vissuto a lungo e da ognuno ha preso, imparato, qualcosa. E oggi, dopo l’addio ai colori azzurri, il tallonatore 36enne traccia con la Dire un bilancio: “Berbizier mi ha dato tantissimo, mi ha dato la possibilità di mettere i piedi nell’alto livello. Mi ricordo di lui la preparazione al Mondiale 2007, che è stata durissima e non solo per me che avevo 20 anni. Mi sono conquistato la maglia per andare al Mondiale. Mi disse ‘ti sei confrontato con giocatori più esperti a viso aperto, tu sei pronto per questo livello’. Quel Mondiale in Francia ha avuto una risonanza importante”. Da un francese a un altro: “Jacques Brunel è una persona più pacata, però ci ha portato in un percorso che nel 2013 ci ha fatto vivere il Sei Nazioni più bello. Mi ha anche fatto capitano del Mondiale in mancanza di Sergio Parisse, nel 2015″. Brunel “ha poi però avuto contrasti con la Federazione, si sono rotti i meccanismi nell’ultimo anno e mezzo”.
E poi c’è Nick Mallett, “con un carisma, una passione… Mi ha fatto capitano nel 2008 inaspettatamente in Sudafrica quando abbiamo giocato contro i campioni del mondo. Lui mi ha dato tantissimo, anche se ogni allenatore mi ha dato molto. Mallett però è stato molto, molto importante, mi ha dato passione. Con lui abbiamo avuto quella passione particolare che in altri momenti non c’era. I giocatori andavano in campo anche per lui”. Nel 2016 è arrivato l’irlandese Conor O’Shea: “Ha fatto un grande lavoro di organizzazione, ha cercato di pianificare a medio e lungo termine. Una persona molto intelligente”. Infine Franco Smith, con il quale Ghiraldini ha lavorato agli ultimi test dell’autunno 2020: “Lo conosco da tanto tempo. Con lui pure una grande passione, vive il rugby da mattina a sera”.

GHIRALDINI: “FACCIAMO IL MASSIMO CON QUELLO CHE ABBIAMO

Vent’anni passati a correre, a placcare, a guidare mischie sui campi di tutta Europa. E una esperienza accumulata a 36 anni che ha pochi eguali. Ghiraldini fotografa così, parlando con l’agenzia Dire, il momento attuale dello sport ovale: “È cambiato molto, è lo sport che è cambiato di più rispetto a molti sport di squadra e individuali- ha detto- Il mio ruolo è cambiato in modo radicale. Quando ho iniziato a livello internazionale si facevano 3-4 placcaggi a partita, 3-4 azioni in cui eri portatore del pallone. Adesso il lavoro si è quadruplicato, l’intensità del gioco è aumentata in maniera esponenziale. La fisicità anche. È cambiato molto il rugby, anche in Italia. C’era prima un campionato italiano composto da 10 squadre e di buon livello con stranieri importanti. Adesso i giocatori più conosciuti al mondo vanno in Francia o Inghilterra. Era un rugby diverso“. Come diversa “era anche la formazione di un giovane, che passava dalle giovanili ad avere l’obiettivo di salire nella prima squadra della propria città e poi magari spostarsi per crescere, vivere altre esperienze, vincere e quant’altro”. Ora, invece, “la formazione è diversa, ci sono accademie, ci sono franchigie, il campionato italiano è forse sceso un po’ di livello, sono cambiate le dinamiche. Un ragazzo di 20 anni ha un percorso diverso rispetto a prima. I ragazzi si devono rendere conto che sono fortunati perché vivono questo sport subito in maniera professionale. Hanno tutto per performare ad alto livello”. Per Ghiraldini “le altre Nazioni sono un gradino più avanti, anzi forse 2 o 3, hanno una cultura diversa dalla nostra, come le strutture e il campionato. Non dobbiamo guardare cosa hanno gli altri, ma dobbiamo renderci conto di quello che abbiamo e fare il massimo con quello che abbiamo noi. Sennò è un continuo rincorrersi, un dire ‘Ma gli altri sono meglio’”.

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